CAPITOLO VII
Vista l’enorme difficoltà a proseguire, il treno si fermò di schianto (lasciando, però, questa volta, i passeggeri nella più completa indifferenza. Da sette chilometri, infatti, la velocità era scesa a livelli ridicoli. Anzi, filosofici. Pare che tre filosofi presocratici, seduti in un comparto non fumatori di prima classe, avessero preso a dialogare sul paradosso di Zenone e di come pie’ veloce non potesse, tassativamente, raggiungere il treno). Lì, a neppure quindici metri di distanza, si impancava il ponte brunito e monumentale sul quale la statua del Pontefice Rosso di Climax avrebbe dominato il mondo. Si notava, tutt’intorno, un’attività frenetica, febbrile e forsennata Vestigo Inani guardava i lavori senza domandarsene l’utilità. L’utilità doveva trovarsi nei lavori stessi, visto che venivano fatti. E comunque, a lui, interessava poco conoscere l’utilità di un lavoro. E, in genere, l’utilità del lavoro. Il senso stava nel fatto sociale. E cioè nell’evidenza che, socialmente, il lavoro fosse già stato accettato. Piuttosto, la sua sensibilità era puntata sulle piccole cose, sui disbrighi del momento, sulle ripetizioni: il passaggio fulmineo dei camerieri, lo sgravamento delle betoniere, l’oculatezza dei tecnici tra progetto e risultato.
Non perché la ripetizione non fosse noiosa, ma perché era la sola a fornire la certezza del lavoro (da ciò si arguiva che Vestigo Inani reputasse lavoro solo quello noioso e ripetitivo). Inoltre, la ripetizione, forniva al lavoro il significato reale e accessibile della durata eterna. Mentre a Vestigo Inani, quell’esperienza, anche se non vissuta di persona, procurava il piacere metafisico di una sospensione più lunga tra la vita e la morte.
Perché Vestigo Inani era convinto che prima di morire avrebbe potuto rivivere tutta la sua vita.

E più lungo fosse stato l’esercizio della vita più tardi sarebbe giunta la morte.













© Manuela Corti 1998






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